Nel XIV secolo Mogadiscio appariva come una delle città più belle e fiorenti del Corno d’Africa, ricca di decoro urbano, lussuosi palazzi e quartieri caratteristici, costruiti con la tipica roccia madreporica e movimentati architravi di mangrovia, in uno stile simile a quello zanzibarino. Gli abitanti erano cortesi e amanti della bella vita, oltre che “buone forchette”. E’ così che la descrisse il grande viaggiatore marocchino Ibn Battuta nel 1331.
Le radici di Mogadiscio affondano nell’antico porto commerciale di Sarapion, successivamente monopolizzato da mercanti arabo-persiani che vi fondarono la nuova capitale medievale nel X secolo, donando nuovo input all’economia di quella che venne chiamata Mogadiscio. Ponte tra l’Africa, la Penisola Arabica, le Indie e la Cina, il suo splendore raggiunse l’apice intorno al XV/XVI secolo, sotto la Dinastia locale dei Sultani Muzzafar, nonostante i ripetuti attacchi portoghesi. Proprio da Vasco de Gama ci arriva un’altra descrizione interessante nel 1499, che ci rimanda l’immagine di una città moderna con 4 torri e numerosi edifici in pietra di svariati piani.
Grazie al commercio di ferro, avorio, ebano e sandalo, le ricchezze si riversarono infatti in grandiose opere e monumenti, quali le numerose e imponenti moschee che ne caratterizzano ancora oggi il profilo urbano. Nel XIX secolo venne annessa al Sultanato di Zanzibar per poi diventare colonia italiana ed entrare infine nella sfera di controllo inglese. Una storia travagliata che ancora non l’ha abbandonata del tutto, è quella degli ultimi 30 anni, durante i quali i “Signori della Guerra” ne hanno quasi interamente distrutto la memoria urbanistica, per la verità già minata da un invadente piano regolatore italiano negli anni ’30, con la perdita di una parte considerevole dei suoi antichi quartieri, ma con la progettazione di alcune opere interessanti.
Oggi Mogadiscio si presenta come un insieme di ruderi, solo in parte maldestramente recuperati, attraverso i quali si intravede appena quello che fu l’antico splendore. Ma come la Fenice, la città desidera, ora più che mai, risorgere dalle sue stesse ceneri. Il suo volto che affaccia sulle meravigliose acque dell’Oceano Indiano è immediatamente riconoscibile dalla Torre Portoghese (in realtà opera degli anni ’40) e dal Faro di Almnara, antica torre di pietra del XV secolo, più volte rimaneggiato, che anticipano i quartiere storici di Shingaani e di Hamarweyne, costruiti tra il X e il XIV secolo. Dal primo transitavano i beni destinati al commercio internazionale, dal secondo quelli destinati al mercato interno, quali bestiame e stoffe. La Garesa, il palazzo fortificato del Sultano di Zanzibar, faceva da cesura tra i due quartieri, che il piano regolatore italiano volle invece unificare. Se il tessuto urbano ebbe ad esserne parzialmente snaturato, gli architetti italiani usarono più rispetto nello stile degli edifici coloniali, ispirati alle architetture tradizionali della Regione di Benaadir, come nell’Hotel Croce del Sud, dell’architetto Rava, oggi trasformato in centro commerciale, o il monumentale Palazzo del Governatore dalle finestre islamiche, oggi perduto. Sopravvivono invece i due Archi di Trionfo dedicati a Umberto I e lo scheletro della bellissima Cattedrale neo-normanna, progettata nel 1928 ad arricchire il profilo della città, dominato dagli antichi minareti del 1200 di Jaamac Hamarweyne e di Fakhreddin.
Nonostante le profonde ferite, Mogadiscio la bianca, tenta di guardare al futuro, tra le brulicanti attività del Bakaara Market, le insenature turchesi dove vengono scaricati quintali di pesce ogni giorno, destinati al caratteristico mercato ittico della città. Il profilo inondato di luce bianca dell’imponente Moschea della Solidarietà Islamica, l’Obelisco che svetta sulla Tomba del Milite Ignoto e le meravigliose spiagge di Jazeera e di Secondo Lido Beach, che i weekend accolgono tutta la prorompente voglia di voltare pagina dei Benaadiri, desiderosi di dimenticare il triste ricordo della Battaglia di Mogadiscio del 1993, tragico evento di cui rimane memoria nel sito del Black Hawk Down, con la carcassa di un elicottero statunitense che non è mai stata rimossa.