Foto © A. Pappone
Nel cuore del Mali, dove le savane del sud incontrano i paesaggi desertici del nord, si apre un mondo fatato, arroccato sui costoloni rocciosi dell’imponente Falesia di Bandiagara. Il Pays Dogon, luogo magico, dove vivono da secoli i “popoli delle stelle”, con i loro segreti ancestrali, basati su una delle cosmogonie più complesse dell’Africa tradizionale.
Si tratta di una delle regioni più affascinanti dell’intero Continente, ricca di tradizioni, paesaggi naturalistici lunari, misteri e magie, sorprendenti architetture in argilla, di cui la falesia ne è il fulcro e lo scrigno, imponente parete rocciosa lunga 250 km, disseminata di villaggi, i più antichi dei quali furono costruiti su preesistenti insediamenti Tellem, nel XIII secolo, quando i Dogon migrarono dal Mandé, stabilendosi in questi luoghi impervi per sfuggire all’islamizzazione e alle invasioni nemiche. Bandiagara è il capoluogo del Pays Dogon, nonché centro principale della medicina tradizionale, basata sulle proprietà terapeutiche delle piante e sulle divinazioni, branca tanto cara al popolo Dogon e parte integrante del loro animismo ancestrale.
Il villaggio di Songho, il primo che si incontra, è celebre per le fabbriche tradizionali nella tessitura del cotone e per la misteriosa grotta sacra della circoncisione, dove si compiono i riti iniziatici dal XIII secolo, con offerte sacrificali agli antenati e simboliche immagini votive (totem) dipinte sulla parete rocciosa, che vengono rinnovate ad ogni nuova circoncisione. In direzione nord, attraversando ruscelli e rigogliosi campi terrazzati di cipolle, si raggiunge Sangha, il principale villaggio sull’altipiano, con le sue abitazioni tradizionali, i granai appuntiti, la suggestiva casa dell’hogon (capo villaggio), movimentata da nicchie plasmate nel muro d’argilla, o la casa sacra dedicata ai rimedi naturali, dove vengono stipati feticci, sculture votive, pozioni di tutti i tipi, animali e vegetali, o portafortuna (gris-gris).
A Bongo, un suggestivo e profondo tunnel naturale che buca una parete della falesia, ci ricorda la passata necessità della popolazione di avere sempre una via di fuga da utilizzare in caso di invasione nemica. Ma osservando tutti i villaggi che puntellano gli anfratti della falesia, ci si rende conto che l’intera esistenza, dei Tellem prima e dei Dogon poi, venne concepita secondo un’organizzazione difensiva dell’abitato e delle comunità, di cui i granai con le derrate alimentari erano la cosa più preziosa da proteggere.
Banani, Gogoly, Ibi, Kundu e i meravigliosi tre quartieri di Youga, disseminati di antichi granai Tellem e Dogon, nascosti nelle spaccature più remote della falesia, raggiungibili solo attraverso un percorso tortuoso di scale di legno che si snodano tra i crepacci della roccia. O ancora, Teli, Ireli (Unesco), Tireli, dove i granai in argilla si mimetizzano perfettamente nel panorama roccioso, incastonati nelle fessure più impervie, raggiungibili solo tramite corde calate nel vuoto dalla sommità dell’altipiano, o scalandone le pareti acrobaticamente dalla piana. Decisamente i luoghi meno accessibili di tutto il Pays Dogon e reinvestiti oggi di una nuova sacralità che li ha trasformati da granai Tellem in cimiteri degli antenati Dogon. Con un trekking di qualche ora ci si inoltra in uno dei luoghi più reconditi e significativi della falesia, raggiungendo il villaggio di Arou, dove si trova il tempio dell’Hogon di tutti gli hogon, ovvero il capo tradizionale supremo di tutto il popolo Dogon. Lungo il tragitto si incontreranno i vecchi saggi sotto ai toguna, basse tettoie di legno intarsiato e paglia, dove si prendono importanti decisioni riguardanti la comunità, o le case a pianta circolare delle mestruazioni, dove le donne evitano di attirarsi la maledizione dei feticci familiari che disprezzano il sangue.
Tireli è un villaggio famoso per la sua danza delle maschere, attorno alle quali ruota l’essenza del complesso simbolismo cosmogonico dei Dogon, altrettanto ricco nei motivi decorativi dei granai e delle abitazioni tradizionali, che riportano in facciata o sul legno scolpito di porte e finestre, la teoria di forme e animali totem, cari all’identità dogon. La varietà di maschere è impressionante e ciascuna rappresenta un simbolo di principi universali alla religione e alle credenze animiste. Per esempio la maschera Kanaga, il cui significato va ricercato nell’unione del cielo e della terra, e nel movimento rotatorio di quest’ultima, a dimostrazione che, prima di Galileo, i Dogon possedessero già nozioni avanzate di astronomia e informazioni dettagliate sul sistema solare.
Descrivere in maniera esaustiva una popolazione e una terra tanto ricca di costumi ancestrali, culture e tradizioni millenarie, è una sfida impegnativa. Basti pensare che tra lingue e dialetti, sulla falesia se ne parlano circa una quarantina, o che esistono riti inaccessibili ai non iniziati che si perpetuano intatti dal XIII secolo, alcuni dei quali a cadenza sessantennale. Il modo migliore per immergersi nella realtà affascinante della falesia ed apprezzarne la complessa ricchezza culturale, é vedere con i propri occhi le infinite sfaccettature che questa terra offre, da assaporare lentamente con un trekking a piedi che permetta di cogliere i piccoli gesti quotidiani delle comunità, avvicinandosi alla loro spiritualità in punta di piedi, tra pozze sacre dove vivono indisturbati e nutriti i caimani, o anziani feticheur che predicono il futuro, interpretando le impronte degli sciacalli sulla sabbia, ma anche tentando di comprendere alcune problematiche di un popolo che ha fatto dell’isolamento il segreto della propria sopravvivenza e della propria identità.