Siti UNESCO
Al Qal’a dei Beni Hammad (1980), resti di una cittadella fortificata di epoca hammadide (XI secolo)
Djemila (1982), rovine romane risalenti al I/IV secolo
Casbah di Algeri (1992), centro storico di Algeri (medina) risalente prevalentemente all’epoca ottomana (XVI/XVII secolo)
Valle dello M’zab (1982), complesso di 5 antiche cittadelle fortificate (Pentapoli), di cui Ghardaia è la principale, fondate da popolazioni ibadite che vi si istallarono a partire dall’XI secolo, a seguito delle conquiste almoravidi
Timgad (1982), antica città romana fondata sotto Traiano nel II secolo.
Tipasa (1982), città di epoca romana fondata dall’Imperatore Claudio nel I secolo su un precedente insediamento fenicio.
Tassili N’Ajjer (1982), area desertica importante per la sua particolare geologia e per le sue 15.000 pitture e incisioni rupestri, testimonianza di epoche che risalgono a 10.000/2.000 anni fa.
Arte rupestre
La presenza umana in tutto l’attuale deserto del Sahara è testimoniata dal rinvenimento di reperti in pietra risalenti al Paleolitico e al Neolitico, ma anche da un corpo di arte rupestre, la più copiosa e preziosa al mondo, che ci parla dell’evoluzione dell’uomo, delle specie faunistiche e dei cambiamenti climatici nel corso dei millenni.
Se oggi il corpus più importante, in quantità e qualità, è costituito da circa 15.000 tra incisioni e pitture conservate nella regione del Tassili N’Ajjer, inserite nel Patrimonio Mondiale UNESCO, il deserto è nella sua totalità una enorme “Cappella Sistina preistorica”.
Dagli esempi più antichi di incisioni che raffigurano in prevalenza animali selvatici quali elefanti o giraffe, risalenti a circa 10.000/7.000 anni fa, dalle raffinate pitture ocra del periodo cosiddetto bovide e delle “teste rotonde” (per via delle figure umane deformi e quasi extraterrestri), risalenti a circa 8.000/4.000 anni fa, per finire le più recenti del periodo cavallino, camelide e il periodo chiamato involutivo a causa delle piccole figure umane e animali molto stilizzate e semplificate (circa 3.000/1.500 anni fa), il deserto ci parla di epoche antichissime, in cui l’uomo dapprima raccoglitore e cacciatore, diventa sedentario e coltivatore. Ci parla anche di estinzione di specie animali che abitavano le verdi savane, prima dell’inizio del processo di desertificazione. Ci parla di antichi culti animisti, di tecniche di coltivazione e allevamento, ci parla della comparsa delle prime forme di scrittura tifinagh (il codice scritto, ancora oggi utilizzato in una forma moderna nella lingua tamasheq).
L’arte rupestre è un preziosissimo documento sulle origini della civiltà e sulla sua evoluzione, ancora tutto da scoprire e studiare a fondo.
Sicuramente uno degli esempi più antichi e raffinati di incisione rupestre è la famosa “Vache qui pleure”, nel Tagharghart non distante da Djanet, risalente a circa 8.000 anni fa, quando la roccia subiva una particolare ossidazione dovuta a un clima ancora umido e la pietra era ancora porosa, tanto da poter tracciare la figura con un tratto largo e regolare, quasi come un dito che scava nel burro. La più grande particolarità di questa incisione che la rende unica al mondo, è non solo la tecnica sapiente, ma anche l’iconografia. Rappresenta un gruppo di bovini (il bubalus antiquus una specie probabilmente estinta nel Sahara circa 6.000 anni fa) con una lacrima che scende dagli occhi. Tante sono state le ipotesi, di cui la più plausibile rimane quella di una figura votiva, in cui è la volontà di rappresentare la sofferenza dell’animale per l’avanzata della siccità e il processo di desertificazione.
Riguardo alle migliaia e migliaia di pitture rupestri conservate nel Tadrart Rouge e nel Tassili, di tutte le epoche, i capolavori per eccellenza risalgono al periodo delle “teste rotonde” e sono conservati tra le pareti rocciose di Sefar, un sito troglodita sull’Altipiano del Tassili N’Ajjer.
Un unicum in dimensioni, tecnica e iconografia è sicuramente la rappresentazione del cosiddetto “Dio Sefar”. Risalenti a circa 7.000/6.000 anni fa, si tratta con tutta probabilità di immagini votive, legate alle credenze ancestrali e i riti sciamanico-animisti già diffusi all’epoca. Figure antropomorfe più simili ad extraterrestri, uomini dalle enormi teste rotonde, processioni e danze, altro non erano che la rappresentazione di guaritori o sacerdoti in atto di compiere dei riti propiziatori alla presenza di adepti. E’ infatti ormai un’ipotesi generalizzata, che la maggior parte dei siti di arte rupestre, fossero luoghi sacri.
Architettura
Attraverso la stratificazione e i differenti stili architettonici, è possibile ripercorrere la complessa e antichissima storia dell’Algeria, nonché avere un panorama delle diverse culture e civiltà che si sono susseguite e intrecciate nel corso dei millenni e dei secoli.
Se le testimonianze più antiche di civiltà millenarie sono rappresentate dall’arte rupestre, le più antiche manifestazioni architettoniche si possono individuare nei monumenti funebri pre-islamici (dolmen) e nei mausolei berberi.
Le necropoli megalitiche, sono diffuse in tutto il centro-nord dell’Algeria e risalgono probabilmente a un’epoca pre-romana. Si tratta di veri e propri cimiteri formati da grandi pietre disposte a baldacchino, simili a quelle rinvenute in altre regioni mediterranee, quali la Sardegna o la Tunisia.
Anche tra i nomadi o semi-nomadi delle regioni desertiche il culto dei morti aveva una parte centrale e facile è imbattersi tra le sabbie e le pietraie del sud, in tombe pre-islamiche formate da piccoli massi disposti a spirali concentriche, alcune con un raggio di enormi dimensioni, tanto da poter essere osservate a lunga distanza.
I popoli che abitavano l’Algeria in epoca pre-romana, erano prevalentemente popolazioni nomadi o semi-nomadi berbere, organizzate in accampamenti di tende di cuoio o tessuto. Bisognerà aspettare i primi insediamenti fenici e i primi regni numidi per vedere delle organizzazioni sociali più sedentarizzate nel nord e nel centro dell’Algeria e di conseguenza le prime testimonianze di architettura complessa.
Tuttavia la maggior parte di queste sono state soppiantate in toto dalle complesse urbanizzazioni di epoca romana e quelle successive di epoca araba e ottomana.
Lo schema della città seguiva le tipiche urbanizzazioni dell’Impero romano, con le mura, le porte di entrata, il foro, l’anfiteatro, il tempio capitolino, la basilica civile, un macellum e gli impianti termali. Le case erano organizzate attorno a un peristilio, con colonnati e ornate di mosaici.
Tra gli esempi più eccelsi e meglio conservati fino ai giorni nostri di architettura romana, si annoverano le rovine di Djemila, Tipasa, Cherchell, Timgad, Ippona, Sitifis, Tiddis, Tagaste e Tebessa, molte di esse inserite nella lista UNESCO.
Citazione merita anche il monumentale Mausoleo di Giuba II e Cleopatra Selene (detto anche della Cristiana), imponente opera funeraria dedicata a uno de Re Numidi che si formò nella Roma Imperiale.
Per quanto riguarda l’architettura di stile e epoca successiva, che meglio rappresenta la cultura islamico-berbera, è il Forte dei Beni Hammad (UNESCO).
Costruito intorno all’anno 1.000 da una popolazione hammadide migrante dal nord a seguito delle conquiste arabe e delle rivolte berbere, è oggi quello meglio conservato e il più antico. La torre, la moschea, i resti di tre palazzi con giardini probabilmente ornati di fontane e una grande piscina, testimoniano la raffinatezza cui giunse l’architettura delle città hammadidi.
Un discorso a parte nell’architettura fortificata berbera, merita Ghardaia e la Pentapoli della Valle dello M’Zab, non a caso anch’essa patrimonio UNESCO.
Fondata tra l’XI e il XIV secolo da popoli ibaditi migrati a seguito delle conquiste arabe, si compone di 5 cittadelle concepite con un’architettura difensiva molto caratteristica ed elaborata, da cui trasse ispirazione Le Corbusier per molte delle sue creazioni.
La moschea è il fulcro della città e della sua vita sociale e si trova sulla sommità dell’abitato che scende a gradoni verso il basso e verso la piazza del mercato, fino alle mura e le due porte di ingresso fortificate. Un intricato reticolo di stretti vicoli e portici si snoda tra le abitazioni, a scopo pratico (contro il caldo, il vento e il freddo) e a scopo difensivo (difficile era attaccare la città da nemici a cavallo). Il minareto occupando la parte più alta della città, fungeva anche da torre di controllo.
Tutti gli edifici erano originariamente costruiti in pietra, argilla e intercapedini di legno di palma. Le abitazioni private si sviluppano attorno a una corte interna e un lucernaio, dove la famiglia può trovare la privacy e la luce necessaria.
L’antica città di Djanet a sud, segue invece la tipica concezione del ksour carovaniero, villaggio-oasi fortificato. In pieno deserto si sviluppa su tre alture rocciose, sia a scopo difensivo, sia per evitare le alluvione nei wadi in pianura, che stagionalmente si riempiono torrenzialmente. Il villaggio era organizzato per rimanere autosufficiente in caso di attacco o di siccità. Le case avevano tutte un granaio e una dispensa, oltre a un sistema di approvvigionamento di acqua all’interno delle mura in caso di emergenza. Oggi purtroppo gran parte dei tre ksour è in rovina da quasi cinquant’anni. Costruiti in argilla e legno di palma, richiedono una continua manutenzione e quindi gli abitanti hanno preferito costruirsi delle moderne abitazioni più a valle.
Tra le architetture delle città-oasi carovaniere, anche Timimoun ne è un esempio particolare, soprattutto per il suo antichissimo e ingegneristico sistema di canalizzazione sotterranea dell’acqua per l’irrigazione dei palmeti e l’approvvigionamento (le foggara).
Algeri “La Bianca” è sicuramente la città più rappresentativa in campo architettonico, per i suoi molteplici volti, stratificazioni e contaminazioni architettoniche di varie epoche storiche.
Almeno tre sono i suoi volti principali, ognuno dei quali a sua volta è riconducibile a differenti stili e momenti storici.
La kasbah, il quartiere popolare della medina che occupa la parte più alta della città, risalente al primo periodo della dominazione secolare ottomana (con stratificazioni e interventi successivi), è stata concepita su preesistenti insediamenti punici e berberi. Nominata Patrimonio Mondiale UNESCO è un unicum nel panorama dell’architettura civile islamico-ottomana. Racchiusa in mura fortificate di pietra, si snoda attraverso una fittissima rete di vicoli e scalette, scorci caratteristici, abitazioni bianche di calce, addossate in equilibrio portante le une alle altre a formare innumerevoli porticati. Uno dei centri storici forse ingiustamente più trascurati e decadenti di tutto il Maghreb, ma che conserva intatto tutto il suo fascino e le sue atmosfere “barbaresche”.
I grandi monumenti e le moschee orientaleggianti e in stile moresco nella fascia urbana mediana, sono invece gli esempi più raffinati e caratteristici della Reggenza di Algeri, massima espressione della magnificenza delle grandi famiglie di pascià e day che governarono per più di tre secoli l’Algeria. L’imponenza di questi palazzi, i loro ornamenti sfarzosi dagli echi moreschi, balzano subito all’occhio e stridono con il bianco accecante del quartiere popolare della casbah, oltre a fungere da cesura tra questo e il quartiere ottocentesco di epoca francese.
Menzione meritano le moschee di Ali Bitchin (1623), di Djama’a al-Djedid (1660) e la più antica Djamaâ el Kebir, risalente all’epoca almoravide.
Il Quartiere Francese che si estende su tutta la corniche della baia, nella parte bassa, è invece una contaminazione di stili da Belle Époque parigina e colori e atmosfere tutte mediterranee. Larghi boulevard seguono la teoria di palazzi e portici metropolitani, dalle caratteristiche ringhiere in ferro battuto e decorazioni portanti in stile Liberty.
Appartenente all’epoca francese “eiffelliana”, merita menzione lo spettacolare ponte in ferro della città di Constantine.
Arte tradizionale
Sicuramente nel panorama delle arti tradizionali e artigianato, la tessitura e il ricamo (tarz) in Algeria occupano un posto predominante in tutte le regioni.
L’arte del tappeto è comune a tutta la tradizione berbera e in Algeria gli esempi più raffinati, sono sicuramente quelli della Valle dello M’zab, della Cabilia o quelli di Timimoun.
I tappeti di Ghardaia, dai colori allegri e le fantasie geometriche tipicamente berbere su fondo scuro, sono per antonomasia il primo souvenir algerino da acquistare, ma dietro la loro fabbricazione artigianale vi è una vera e propria arte e savoir faire millenari, che si tramandano di generazione in generazione.
La terracotta e il gioiello in Cabilia, sono un altro aspetto caratteristico della creazione artistica di origine berbera. Le regioni della Piccola Cabilia e della Grande Cabilia sono rinomate per la qualità della loro argilla. Questo ha fatto sì che nel corso dei secoli si sviluppasse una tradizione fortemente radicata di ceramica e manufatti in terracotta. Dai colori accesi vermigli e i motivi geometrici, gli utensili quali piatti, ciotole, vasi, tajine, portaceneri, attireranno senza dubbio per la loro raffinata fattura e buon gusto.
Sempre in Cabilia, presso la tribù dei Beni Yenni, l’arte del gioiello risale al XV secolo ed è forse quella che raggiunge il livello più eccelso di tutta la tradizione berbera. I monili cabili sono inconfondibili . Un tripudio di decorazioni, di colori e forme elaborate, applicate anche a oggetti in legno o utensili di uso comune, che vengono quindi nobilitati ed elevati essi stessi a gioiello prezioso. Tipiche sono le bellissime parure che accompagnano la dote e il corredo nuziale della sposa, in argento, con inserti di corallo del Mediterraneo, gemme e smalti dai colori simbolici: il verde della natura, il giallo del sole, il blu del cielo.
Nelle regioni desertiche un’arte millenaria è quella della lavorazione del cuoio. La pelle e la lana del cammello o caprina, viene fin dall’antichità sapientemente trasformata per la fabbricazione non solo di oggetti di uso comune, quali scarpe, bisacce, selle, cinture, ma anche gioielli, ornamenti, cofanetti portaoggetti, e oggigiorno souvenir. Famose sono le babbucce colorate della regione del Gourara, o l’artigianato in cuoio di Tlemcem di ispirazione arabo-berbera e andalusa. I touareg sono sicuramente maestri del cuoio e affondano il loro savoir faire nell’antica tardizione nomade carovaniera. Ornamenti per le tende, cuscini, stuoie, paramenti di frange per i dromedari, gioielli, portafortuna e cofanetti. La fantasia dei tuareg spazia in una moltitudine di oggetti di cuoio colorato, tra i più caratteristici di tutto il Sahara. Non solo, il popolo tuareg è anche maestro nella lavorazione dell’argento. Bellissimi i gioielli tuareg, finemente sbalzati o lavorati a filigrana. Collane, ciondoli, bracciali, anelli, decorazioni e applicazioni a oggetti di uso comune quali bauli o cofanetti, richiamano nei loro motivi simbolici e geometrici gli elementi naturali, con raffinata semplicità e purezza della forma.
La lavorazione del rame e del vetro soffiato sono arti molto antiche che risalgono alla dominazione ottomana. Se Algeri ha ormai perso la tradizione per colpa del processo industriale, dei validi artigiani che si tramandano di padre in figlio i segreti, si possono ancora trovare a Constantine e a Tlemcem. Piatti, vassoi, teiere e lanterne in rame e vetro colorato, bicchieri di vetro soffiato, vengono ancora creati a mano secondo un metodo artigianale che risale al Medio Evo.
Per quanto riguarda le arti grafiche e la pittura, come in tutte le culture fortemente islamizzate e soggette all’iconoclastia, non vi è mai stata una grande tradizione in Algeria e la pittura contemporanea comincia solo timidamente nel ‘900 a trovare un suo spazio, se si esclude un movimento pittorico ottocentesco sotto la dominazione francese, durante il quale tuttavia furono attivi in prevalenza pittori francesi stabilitisi in Algeria, i cosiddetti “Orientalisti”.
Nel campo delle arti grafiche è invece l’arabesco e l’arte calligrafica l’unica forma iconografica tollerata dall’Islam, pertanto fu l’unica a diffondersi in Algeria durante il corso dei secoli. Ancora oggi, gran parte dell’espressione artistica algerina è legata a pitture ornamentali e decorative a motivi floreali, geometrici e arabeschi, pertanto astratti, che affondavano le loro radici nell’arte miniaturista o calligrafica.
Solo nel XX secolo, appare una prima scuola di pittori contemporanei algerini che superano le imposizioni della legge coranica, pur rimanendo alcuni di essi ispirati dall’arte calligrafica. Oggi sono numerose le gallerie d’arte contemporanea ad Algeri che espongono opere di pittori paesaggisti, astrattisti, ritrattisti, o scultori e fotografi. Tra questi ricordiamo i fratelli Omar e Mohamed Racim, Abdallah Benanteur, Mohammed Khadda, o il gruppo di pittori simbolisti chiamato Aouchem. Negli anni ‘90 meritano menzione i pittori della guerra civile, Djeffal Adlane, Zoubir-Hellal e Mammeri. Una delle più grandi pittrici algerine fu Baya, tanto apprezzata da Breton e Picasso, che si consacrò a una pittura sospesa tra il naif, il simbolismo e il cubismo, a partire dagli anni 50.
Cinema
Si può cominciare a parlare di un vero e proprio cinema algerino autoctono, solo a partire dalla guerra di Liberazione e dalla proclamazione dell’Indipendenza dalla Francia, negli anni ’60. Prima di allora, la produzione cinematografica era in mano coloniale e fortemente politicizzata, tesa ad esaltare gli aspetti del colonialismo francese e relegando l’Algeria a semplice ambientazione esotica di vicissitudini e personaggi d’oltremare.
Le prime realizzazioni cinematografiche incentrate su eventi di cronaca contemporanei e legate alle drammatiche vicende della guerra di Liberazione, tuttavia, sono inizialmente delle coproduzioni firmate da registi stranieri, seppur vicini alla élite intellettuale del Fronte di Liberazione Nazionale. Un esempio tra tutti, il famosissimo film di Gillo Pontecorvo La Battaglia di Algeri (1966).
Ma già nel 1967 viene premiato per la prima volta a Cannes un regista algerino, Mohammed Lakhdar Hamina, con il suo film Il Vento degli Aurés, che conquisterà nuovamente la Palma d’Oro nel 1975 con Cronaca degli anni di brace. Si inaugura così la prima stagione dell’industria cinematografica algerina, desiderosa di riscatto dal colonialismo e dalla supremazia culturale della Francia. Sono tutte realizzazioni-denuncia sui soprusi subiti dal popolo algerino durante l’epoca coloniale.
Negli anni ‘70 un movimento di giovani cineasti, promuove un cinema dijdid (nuovo) che preme per affrontare temi sociali legati a problematiche interne e che rifiuta la pura celebrazione o denuncia del passato, preoccupandosi invece di analizzare la società algerina reale, ormai affrancata dal colonialismo e dalla guerra. Nasce il Festival Internazionale del film arabo di Oran nel 1976. Esempi di spessore di questo decennio sono Il carbonaio di Mohamed Bouamari, Noua di Abdelaziz Tolbi, Il vento del Sud di Slim Riad e Omar Gatlato, opera prima di Merzak Allouache.
Capolavoro degli anni ’80 è invece Al-Kalaa di Mohamed Chouikh che dipinge e denuncia con durezza e in maniera più incisiva del decennio passato, la condizione femminile nella società algerina contemporanea.
Gli anni ’90 a seguito della guerra civile, vedono l’esodo di gran parte degli intellettuali e artisti algerini, tra cui anche i registi, al punto che negli anni 2000, si sente la necessità di riportare linfa vitale all’industria. Inizia così un ventennio molto prolifico e con ottimi risultati. Molte realizzazioni dei primi anni 2000, si incentrano sulla perdita identitaria a seguito dell’esodo algerino degli anni ’90 e affrontano spesso tematiche di ricongiungimenti familiari da parte di immigrati in Francia che fanno ritorno nella terra natia e devono scontrarsi con realtà e pressioni sociali a loro ormai estranee. La Fille de Keltoum (2002) di Mehdi Charef, Delice Paloma (2007) di Nadir Mokneche, Bab el Web (2005) di Merzak Allouache, La Chine est encore loin (2010) di Malek Bensmaïl, Timelife (2019) di Hamid Benamra, sono solo alcuni titoli.
Letteratura
Se le prime forme di scrittura in Algeria sono antichissime e rintracciabili nell’ambito dell’arte parietale nel deserto, con esempi di codice tifinagh di origine libico-berbera, risalenti al V secolo a.C. circa, o con le iscrizioni puniche sulla costa mediterranea, l’esordio della letteratura risale alla dominazione romana e successivamente araba.
I più grandi scrittori in latino di origini africane, sotto la dominazione romana, furono il filosofo Apuleio, l’apologeta cristiano Tertulliano e il teologo Sant’Agostino di Ippona.
Dal VII secolo l’Algeria diventa terra di dominazione araba e islamica. Comincia la diffusione di testi manoscritti in lingua araba e trattati in seno agli eruditi musulmani che si spostano tra le principali università teologiche del Maghreb. Tuttavia non sono solo i testi coranici a circolare, ma anche trattati di letteratura e scienza e di svariate altre discipline.
Alla letteratura araba classica l’Algeria contribuì nel corso dei secoli con i versi mistici e le massime di Abū Madyan (1126-1197), con le poesie di at-Tilimsānī (1216-1291) e con le biografie letterarie di Aḥmad al-Gubrīnī (1246-1314).
In seno alle popolazioni berberofone che mantennero la propria identità culturale sotto la dominazione araba e ottomana, la storia, la poesia, il canto popolare continuarono invece a circolare ed essere tramandati grazie alla tradizione orale dei meddah (cantastorie).
I meddah continuarono a cantare fino alla conquista da parte della Francia e fu solo nel 1920 che Robert Arnaud (1873-1950) con il manifesto dell’indigenismo invitò i letterati a cercare una forma espressiva originale. Jean Amrouche (1906-1962) raccolse nel 1934 gli elementi della tradizione algerina in Cendres e nel 1939 pubblicò le Chansons berbères de Kabylie.
Per avere l’antologia più completa e significativa in lingua berbera bisognerà aspettare fino al 1966, con la pubblicazione di poemi e racconti tradizionali della Cabilia, Il chicco magico di Marguerite Taos Amrouche.
Tuttavia una letteratura nuova rispetto alla tradizione si sviluppò dapprima tra i letterati di formazione europea, soprattutto per opera della Scuola di Algeri, con scrittori come Albert Camus, Emmanuel Roblès, Gabriel Audisio e Jean Pelegri; ma la loro produzione non è riconosciuta come algerina dalla critica attuale.
Una letteratura algerina contemporanea, vera e propria, nacque intorno al 1950, esprimendosi quasi esclusivamente in francese e nella forma del romanzo. Essa testimonia la resistenza, l’entusiasmo per una nuova società, ma anche il disagio creato dalla coesistenza di due culture (quella arabo-berbera e quella francese). L’esordio di questa nuova letteratura autoctona fu sicuramente Le fils du pauvre (1950), romanzo autobiografico di un modesto insegnante della Cabilia, Mouloud Feraoun. Uno dei più grandi scrittori della prima stagione letteraria algerina fu senza dubbio Kateb Yacine, romanziere complesso e originale, fu anche autore teatrale e poeta.
A partire dagli anni ’70 e ‘80 le spinte del fondamentalismo islamico cominciano a influire anche sulla produzione letteraria e osteggiare gli scrittori considerati non allineati. Questo fenomeno culminerà negli anni ’90 con vere e proprie minacce e pena di morte, al punto che la letteratura di questo periodo può essere considerata “di stato”, volta alla celebrazione del passato e della cultura araba classica, in saggi prevalentemente socio-politici o dal taglio documentarista, quali ad esempio Le thé au Harem d’Archi Ahmed (1983) di Mehdi Charef.
Tra gli scrittori non allineati fu il poeta e romanziere Tahar Djaout (1954-1993) che esprime nei suoi scritti tutto il suo fervore politico e la protesta contro l’autoritarismo. I suoi romanzi L’exproprié (1981), L’invention du désert (1987), Les vigiles (1991) e la creazione del giornale Ruptures, gli costarono la vita. Venne assassinato nel 1993.
Pertanto furono molti gli scrittori che abbandonarono la madrepatria per ritrovare libertà espressiva in Francia. Un esempio tra tutti, lo scrittore (ex agente di polizia) M. Moulessehoul, conosciuto a livello internazionale con lo pseudonimo di Yasmina Khadra, (tra i suoi tanti romanzi tradotti in tutte le lingue, L’attentarice del 2006).
Alla protesta sociale e la lotta contro l’integralismo, appartiene anche un filone molto produttivo di letteratura femminista. Le scrittrici algerine si sono infatti affermate come le portavoce dei movimenti di protesta più temerari, innovativi e indipendentisti.
Alla condizione delle donne immigrate si è dedicata Leïla Sebbar, che da anni vive in Francia, ed è stata tra le prime a dare la parola al mondo femminile in esilio in Fatima ou les algériennes au square (1981). Khalida Messaoudi, ha sfidato le minacce di morte che pesano su di lei, denunciando in Une Algérienne debout (1995) gli attentati alla libertà algerina perpetrati dagli integralisti islamici e dallo stesso governo.
Musica
La musica tradizionale algerina affonda le sue radici nella notte dei tempi e sotto molteplici e complessi influssi, tanto quanto complessa e sfaccettata è la sua cultura in generale. Basti pensare che la tradizione orale attraverso la quale si tramandava la storia dei popoli berberi o di origine berbera, era spesso affidata al canto.
Ma è intorno al XIII secolo, che nasce la musica classica algerina, in seno alla cultura arabo-andalusa. Le origini sono da ricercare nei cantastorie e poeti provenienti dalle corti d’Oriente, che giunti in Andalusia nell’VIII secolo, portarono influssi persiani e greci tra le corti moresche di Spagna e successivamente nel Maghreb.
Con orchestre formate da liuti (oud), flauti (nay), percussioni (tbiblat, tar e derbouka) e citare o piccole viole a due corde, si comincia così a comporre musica di influenza arabo-andalusa, che rimasta viva nei secoli, giunge fino alla cultura popolare algerina contemporanea.
La musica hawzi nasce a Tlemcem sotto l’influsso culturale di Granada, quella çanaa e chaabi (con influssi della musica gnaoua marocchina e berbera) ad Algeri e trae ispirazione da Cordoba, oppure i canti maalouf a Constantine, originari di Siviglia.
Tuttavia ogni regione ebbe anche i propri influssi e tradizioni autoctone, non necessariamente di ispirazione arabo-andalusa.
La musica bedoui apparve nella regione di Oran nel XIX secolo e origina da canti melodici rurali, con l’accompagnamento di strumenti tradizionali quali il tamburo galal o il flauto gasba. Mestfa Ben Brahim o Cheikh Hamada ne furono tra gli interpreti principali.
La sua evoluzione in tempi moderni è da individuare nella musica rai apparsa nel XX secolo, che accompagna dei canti popolari melodici, più complessi e filosofici sull’esistenza. Tra i più grandi artisti di rai, conosciuti a livello internazionale, sono Cheb Mami e Khaled (l’autore della famosissima canzone Aicha).
Riguardo alla musica legata al folklore regionale berbero, la musica chaoui (berbero delle regioni Aurés) e la musica cabila sono forse quelle più varie, con molteplici stili e influssi a seconda della zona, fino a contaminazioni di pop, rock e blues nelle creazioni delle ultime generazioni di artisti contemporanei.
Nelle regioni del sud algerino, la musica ha subito inevitabilmente non solo gli influssi della musica araba, berbera o beduina tradizionale, ma soprattutto della cultura dei griots e dell’animismo dell’Africa sub-sahariana.
Nella musica sahraui, gnaoua o touareg, secondo stili antichi e arrangiamenti di strumenti musicali tradizionali, i temi affrontati sono l’amore, il deserto, la natura, la religione e le gesta epiche dei popoli, secondo la millenaria tradizione orale e i ritmi ipnotici.
Khalifi Ahmed è un degli artisti di spicco della musica contemporanea sahraui e i suoi testi molto poetici sono accompagnati da flauti. Il genere ahallil è invece incentrato su canti religiosi ipnotici ancora in uso nella regione di Timimoun (Grouara).
La musica gnaoua, diffusa anche e soprattutto in Marocco e in Tunisia, conserva ancora oggi la sua tradizione millenaria e viene celebrata in un Festival Internazionale della musica Gnaoua a Essaouira. Si tratta di canti e ritmi strumentali fortemente ipnotici, che venivano utilizzati in passato, ma ancora oggi, a scopi terapeutici, da medici e veggenti tradizionali, durante i loro riti che richiamavano le pratiche della trance sciamanica e che rappresentano oggi l’aspetto più mistico della religione musulmana (diwane).
Quando si parla di musica touareg, è molto riduttivo individuarla in confini geopolitici. Il popolo touareg rivendica la propria identità e unità da secoli e anche la musica è espressione di tale unità identitaria. Probabilmente è l’espressione artistica più poetica dell’intero panorama musicale africano (Libia, Niger, Mali, Algeria, Burkina Faso), indissolubile dalla poesia e dai racconti della tradizione orale. In Algeria, sono le regioni di Tamanrasset e di Djanet, l’epicentro di tale cultura ed è qui che hanno visto i natali i più talentuosi musicisti touareg.
Nella cultura contemporanea è opinione generale, far discendere dalla musica del deserto le radici del blues. E’ in effetti paragonabile a un “blues del deserto”, il ritmo lento e cantato della musica touareg, che celebra gli stati d’animo legati alla contemplazione della natura e degli spazi sconfinati, del vento e della sabbia, l’ammirazione e il rispetto per la donna, l’amore e le gesta eroiche di un popolo di fieri guerrieri.
Tra gli artisti tuareg di natali algerini più famosi a livello internazionale, doveroso è ricordare il grande Bali Othmani (e suo figlio Nabil attualmente molto attivo in Francia).