Foto © I. Fornasiero
Sono 115 i chilometri che separano Asmara da Massawa. 115 chilometri di tornanti spettacolari, a strapiombo su altipiani, vallate di sicomori e piantagioni, paesaggi naturalistici straordinari, abitati dai babbuini amadriade. 115 chilometri che finiscono la loro corsa sulle paradisiache acque turchesi e le spiagge bianche del Mar Rosso, che separano oltre a differenti morfologie, anche differenti realtà culturali.
Fu a Massawa che gli italiani si insediarono inizialmente, porta di accesso strategica e commerciale al Canale di Suez. Ma fu il caldo torrido della costa a spingerli ben presto sugli altipiani, salubri e freschi, per fondare Asmara su preesistenti insediamenti di cultura tigrina, prevalentemente sedentaria e ortodossa, collegandola poi alla costa con la spettacolare strada panoramica, la ferrovia e perfino la più lunga teleferica del mondo, oggi smantellata.
Se quindi Asmara venne costruita ex-novo, diventando capitale italiana in Abissinia, all’arrivo a Massawa, gli italiani trovarono una realtà molto diversa. Una regione dagli echi salomonici, antica terra di Punt, di bassopiani e coste, che da millenni era stata prima axumita, poi araba, portoghese, turco-ottomana ed infine egiziana. Un crocevia millenario di genti e un mélange di culture, sulle quali prevaricò storicamente quella musulmana, delle genti Afar, Tigré e dei nomadi arabi Rashadia.
Gli italiani a Massawa non poterono che salvaguardare gli antichi edifici in stile ottomano, valorizzando le influenze architettoniche che richiamavano alle terre d’Oriente, perpetuandone le caratteristiche stilistiche anche nei nuovi edifici coloniali, arricchiti di qualche licenza Liberty o razionalista, che si aggiunsero ad un tessuto urbano secolare. Una città dal fascino decadente, non si potrebbe definire altrimenti, questo antico porto sul Mar Rosso dove tutto ci parla di storia, comprese le sue profonde ferite conseguenti alla guerra di Liberazione dall’Etiopia, che negli anni ’90 devastò gran parte del centro storico.
Circondata di saline e bordata dal turchese trasparente del mare, Massawa si sviluppa su due isole (Taulud e Massawa), collegate alla terraferma da un ponte e una diga, inondata di luce come un gioiello marino che neanche la carcassa di un Mig e i segni della guerra etiope riescono ad opacizzare.
Un dedalo di vie dove si incanala la brezza marina, tra abitazioni turche, arabe e italiane, inondate dall’odore di caffè, incenso e spezie; ville italiane anni ’30, tra cui era Villa Melotti, capolavoro oggi scomparso, appartenente alla famiglia italiana che avviò la storica fabbrica di birra nazionale, un’istituzione in Eritrea. Dominano la cornice urbana il Palazzo Imperiale “ghebi” del XVI secolo, divenuto residenza invernale di Haile Selassie, restaurato nel XIX secolo da un avventuriero svizzero che venne insignito dagli egiziani con il titolo di Pascià; il molo e le banchine infuocate dal sole tra il viavai di houris e sambuchi (imbarcazioni tradizionali); la Banca d’Italia e le vecchie fabbriche italiane, oggi abbandonate; l’Hotel Savoia e le insegne sbiadite di un Novecento italiano, ormai tramontato e decontestualizzato tra bifore orientali, arcate ottomane, antiche moschee medioevali e i musharabia, ballatoi verandati in legno e bambù.
Massawa sembra quasi una Venezia del Mar Rosso, di mattoni corallini dipinti a calce, che dorme al caldo dell’ora di punta, vive al tramonto e risorge all’alba, sul magnifico scenario naturalistico dove placide appaiono le Isole Dahlak e le rovine archeologiche del porto axumita di Adulis, vecchio di 4.000 anni.