Foto © L.F. Paoluzzi
Piccolo mosaico di culture e tradizioni, l’Eritrea può apparire sorprendente per la varietà di popoli che accoglie, in una geografia relativamente contenuta.
Gli altipiani dell’Abissinia “italiana” sono storicamente la roccaforte del popolo Tigrino che nel corso dei secoli si rifugiò sulle alture per preservare i propri riti copti dall’avanzare dell’Islam. Man mano che si ridiscende a valle, cambiando la morfologia paesaggistica, cambiano anche le tradizioni e i popoli.
Lasciandosi i bassopiani fertili alle spalle e le savane rurali puntellate di tukul, scrigno di una variopinta cultura pastorale, di genti Tigré e Bilen, in prevalenza pastori musulmani e agricoltori copti, si entra nella regione costiera, da millenni teatro di rotte commerciali e profonde influenze arabo-ottomane.
Poco prima di entrare nella città marittima di Massawa, ci si imbatte nei caratteristici accampamenti Rashaida. Questa minoranza fu l’ultima a migrare in Eritrea nel XIX secolo dalla Penisola Arabica e oggi può essere considerata l’unica cultura eritrea interamente nomade e di lingua araba. Tra le loro tende scure di pelo di cammello (zeribe) e i tappeti colorati, i Rashaida, antichi pirati del mare e predoni del deserto, conducono una vita essenziale, spostandosi con le loro mandrie seguendo la ciclicità dei pascoli. Estremamente tradizionalisti, consentono i matrimoni solo all’interno di uno stesso clan e la loro schiva identità semita impone delle strette osservanze, tra cui il velo integrale per le donne, un burqa nero e rosso, impreziosito da fili argentei, perline e raffinate bande di tessuto dalle vivide decorazioni geometriche. Riuscire a farsi invitare sotto le loro tende per gustare un tè tradizionale o una ciotola di latte di dromedario o di capra, è un’esperienza di condivisione unica. Magica e ammaliante la danza femminile e il trucco con cui accentuano il taglio dei loro occhi scuri, mentre gli uomini in jellaba chiara impugnano le sciabole.
I Rashaida condividono la regione costiera con i discendenti dei Beja sudanesi, leggendari guardiani del Mar Rosso, con i pastori seminomadi Saho, con i Jiberti (Tigrini islamizzati) e soprattutto con i fieri Afar, gruppo maggioritario di origine camitica, che abita il territorio compreso tra l’Eritrea costiera e la Dancalia.
Interamente islamizzati, parlano la loro lingua afar ed erano spietati guerrieri che resistettero alle secolari incursioni nemiche a suon di spade e sciabole, difendendo i propri territori in cui vivevano di pastorizia, di pesca e detenendo lo storico monopolio delle carovane di dromedari per il trasporto del sale dancalo. Abili conoscitori dei segreti del mare, fecero affari con gli yemeniti, vendendo loro le pinne di pescecane, rinomate per il loro potere afrodisiaco, mentre le donne estraggono ancora oggi una resina profumata (liho) dalle conchiglie. A testimonianza della loro origine nomade rimangono oggi le tecniche di costruzione dei burra (accampamenti), in capanne di legno e stuoie facilmente smontabili e trasportabili, e se le donne appaiono discrete ed eleganti con i loro veli e scialli ad incorniciare il bel viso segnato dalle scarificazioni tribali, gli uomini portano ancora oggi appeso alla cintola il coltello ricurvo jile, dall’aria minacciosa. Niente paura, oggi gli Afar sanno essere molto ospitali e rispettosi, ma a loro volta esigono di essere trattati con rispetto. Se questo avverrà, molto probabilmente sapranno esservi riconoscenti, offrendovi un distillato di palma di dum, strappo “tradizionale” alle regole musulmane.
Ma il popolo più antico in Eritrea, è senza dubbio quello dei Cunama, nella sperduta regione sud-occidentale, al confine con il Sudan. La storia orale li vuole diretti discendenti nilotici degli antichi regni Kushiti di Nubia, che migrarono in queste terre intorno all’VIII secolo. Qui una montagna dalla forma curiosa, come un mistico monolito, svetta a Tesseney ed è credenza ancestrale indicarla come la casa di Annah, il dio monoteistico su cui i Cumana incentrano la propria spiritualità animista, che ha subito successivamente le contaminazioni della liturgia cristiana o musulmana. La loro particolare società tribale, divisa in clan, è regolata ancora secondo le gerarchie di età, in cui gli anziani sono il simbolo di saggezza, giustizia ed autorità. Interessanti sono le forme simboliche dei tetti dei loro tukul che richiamano i totem di ciascuno dei 4 clan (elefante, bufalo, luna, rinoceronte). Popolo di agricoltori, parlano la lingua baza, vivono in villaggi sedentari e le loro cerimonie religiose vengono scandite dalla ciclicità delle piogge e del raccolto, con riti e sacrifici propiziatori, accompagnati da canti e danze (kubulà) estremamente suggestivi. Particolarmente raffinate sono le stoffe colorate e le acconciature femminili, arricchite di perline colorate, ordinate in due grandi trecce sulla fronte per le donne sposate e in una teoria di sottili treccine per le più giovani.