Se il Gambia è oggi una meta naturalistica di straordinaria bellezza e ricchezza, nel visitarla non si può prescindere dai suoi principali siti di importanza storica, testimonianza di un passato fatto di antiche popolazioni misteriose, potenti regni africani, equilibri geopolitici per il controllo dei traffici europei e la triste memoria della tratta degli schiavi.
A circa 30 km dalla capitale Banjul, risalendo il fiume, si arriva ai piccoli villaggi tradizionali di Jufureh e Albreda. Abitati da popolazioni wolof e mandinka, furono il teatro secolare della tratta negriera e degli scontri tra le nazioni europee per il controllo del fiume Gambia.
E’ qui che vivono ancora oggi i discendenti di Kunta Kinteh, tra le capanne tradizionali e i retaggi coloniali, di cui venne data la famosa descrizione romanzata nell’opera letteraria Radici di Alex Haley.
Non distante, al centro del fiume, sorge James Island, dichiarata Patrimonio UNESCO nel 2003.
Occupata dai portoghesi nel XV secolo, venne successivamente edificata dai coloni baltici del Curlandia nel 1651 con il nome di Sant’Andrea, conquistata qualche anno più tardi dagli olandesi e infine dai britannici nel 1664, che la ribattezzarono James Island, respingendo da qui ripetutamente, gli attacchi francesi che controllavano le sponde del fiume da Albreda.
Oggi questa minuscola isoletta divorata dall’erosione, abbandonata alla propria decadenza da più di due secoli, conserva i ruderi del suo antico forte dal profilo merlato e i monumentali baobab che contribuiscono a donarle un fascino misterioso e spettrale.
Gli avamposti coloniali di James Island, Albreda e Jufureh, furono le prime testimonianze storiche della volontà degli europei di penetrare anche nell’entroterra, espandendo il controllo dalle coste verso l’interno, tramite il fiume Gambia. Esattamente quello che fecero due secoli più tardi i francesi sul fiume Senegal, più a nord.
E’ difficile credere oggi che questi ruderi ormai fatiscenti, queste località sonnolente, sospese tra attività quotidiane e paesaggi fluviali di straordinaria bellezza, siano stati nei secoli scorsi il teatro di un simile passato, se non fosse il piccolo museo della schiavitù ad Albreda o la casa dei discendenti di Kunta Kinteh a Jufureh,a ricordarcelo.
Ma la storia del Gambia risale a molti secoli prima della colonizzazione e delle incursioni europee. Al confine est con il Senegal, su una vasta superficie a nord di Janjanbureh, sono disseminati dei misteriosi cerchi megalitici, simili ai menhir mediterranei. In laterite, sono formati da blocchi di dimensioni variabili da 1 a 2,5 metri di altezza e disposti a formare un centinaio di circoli, ciascuno dei quali comprendente tra le 10 e le 24 pietre. Da recenti studi emerge che vennero eretti in un’ampia epoca compresa tra il III secolo a.C. e il XVI secolo d.C., probabilmente quali luoghi sacri di sepoltura. I siti sono distribuiti in quattro località principali, Wassu e Kerbatch in Gambia, Wanar e Sine Ngayene in Senegal, creati da popoli evoluti ed organizzati, dal momento che ciascuna pietra venne estratta e lavorata con strumenti in ferro. Non si sa con esattezza che popoli fossero, ma data la zona di confine e la demografia odierna della regione, si trattava probabilmente di antenati wolof, diola e serer. I siti gambiani, in particolare, conservano alcune eccezioni, quali la pietra più alta che raggiunge i 256 cm., una pietra bifida e una pietra intagliata a forma di “V”, databili tutte tra il 900 e il 1300 d.C., dall’analisi delle sepolture ritrovate sul posto. L’UNESCO, data l’eccezionalità delle testimonianze, ha inserito i cerchi megalitici del Senegambia nella lista Patrimonio Mondiale nel 2006.