Siti UNESCO
In Marocco sono presenti 9 siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità UNESCO, tutti di interesse storico-culturale:
Sito archeologico di Volubilis (1997)
Si trova in una zona collinare fertile e strategica, ai piedi di due massicci montagnosi, tra cui il più alto è il Zerhoun. Certamente abitata da popolazioni Maure già nel IV secolo a.C., divenne capitale del Regno autoctono di Mauretania nel III secolo d.C., subendo tuttavia notevoli influssi punici, dalle ingerenze cartaginesi nella regione costiera. Numerosi resti archeologici e monete risalenti ai regni di Giuba I, Giuba II, Bocco e Tolomeo, testimoniano la continuità storica della città, quale importante centro del Regno di Mauretania e di Numidia. Con il controllo diretto dell’Impero Romano sui territori della Mauretania Tingitana, a partire dal 40 d.C., Volubilis si sviluppa rapidamente grazie alla fiorente ulivicoltura e cambia radicalmente il suo volto. Si espande su 42 ettari in un’urbanizzazione tipicamente romana, con infrastrutture, acquedotti, strade, monumenti e mura fortificate, che la difendono dagli attacchi esterni delle tribù maure ribelli. La città verrà abbandonata dai romani nel 285 d.C. e, successivamente, nell’XI secolo dalla popolazione arabo-musulmana della dinastia Idriside, che sposta la capitale a qualche chilometro di distanza, fondando Moulay Idriss Zerhoun.
All’età d’oro romana appartengono la maggior parte degli edifici ancora oggi conservati, tra cui alcune bellissime pavimentazioni a mosaico, l’arco di trionfo, i colonnati della via principale, numerose iscrizioni in latino, i resti del foro, le terme pubbliche, le porte d’accesso e i templi con gli altari sacrificali.
Città storica di Meknes (1996)
Fondata nell’XI secolo dagli Almoravidi come insediamento militare, deve il suo nome alle tribù berbere autoctone della regione, i Miknasa. Durante le guerre di supremazia tra gli Almoravidi e gli Almohadi, Meknés viene rasa al suolo e ricostruita in epoca merinide tra il XIII e il XV secolo. A quest’epoca appartiene la Grande Moschea e la Madrasa Bou Inania. Con l’avvento della dinastia Alawita, diventa capitale del Regno nel 1672 e sviluppata architettonicamente sotto Mulay Ismail, tanto da prendere lo pseudonimo di “capitale ismaeliana”. Allo sfarzo e alla ricchezza delle sue architetture e delle sue immense mura fortificate, dotate di numerose porte monumentali, contribuì il lavoro di 30.000 schiavi e 3.000 prigionieri cristiani. La sua Medina e le sue 25 moschee, sono quanto di più eccezionale ha prodotto l’architettura alawita del XVII e XVIII secolo, in una mescolanza di stile ispano-moresco e arabo-magrebino: immense scuderie, decine e decine di minareti che ne caratterizzano il profilo, caravanserragli per i mercanti stranieri (Meknes è ancora oggi uno dei più importanti centri agricoli di ulivicoltura e viticoltura del Marocco), palazzi reali e case private, fontane e hammam.
Ksar di Ait-Ben-Haddou (1987)
Se le città imperiali del Marocco sono delle eccezionali testimonianze architettoniche delle dinastie arabo-berbere che si susseguirono e governarono sull’odierno Marocco o su parti di esso, gli ksour erano, al contrario, l’espressione architettonica dell’abitato tradizionale delle popolazioni berbere, stanziate nel sud, lungo le principali rotte carovaniere transahariane. Nella provincia di Ouarzazate, lo ksar di Ait Benhaddou è sicuramente il più rappresentativo. Arroccato sul fianco di una collina, era un importante snodo commerciale della tribù chleuhs, per le carovane che percorrevano le piste tra Timbuctu e Marrakech. Il suo aspetto fiabesco è dato dalle mura fortificate con torrette angolari che lo circondano, e dalle strette case in argilla e pietra, che degradando sul pendio scosceso, simili a tanti piccoli castelli decorati in facciata. Un gigantesco agadir, granaio comunitario, a sua volta fortificato, occupa la sommità della collina. Gli edifici più antichi risalgono al XVII secolo e fra essi un caravanserraglio, che serviva ad alloggiare i carovanieri di passaggio. Per la sua eccezionalità, è stato scelto quale location per la realizzazione di numerosi film, quali Lawrence d’Arabia, Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, il Tè nel Deserto di Bertolucci e il Gladiatore.
Medina di Essaouira (Mogador) (2001)
Essaouira è un eccezionale esempio di architettura fortificata, di stile ingegneristico europeo, del XVIII secolo. Nato come porto commerciale internazionale, dove venivano stoccate e imbarcate le merci provenienti dai traffici carovanieri e destinate all’Europa o alle Americhe, accoglieva una popolazione cosmopolita di arabi, berberi, europei, gnaoua e harratin, commercianti musulmani, cristiani ed ebrei. Voluto da Mohammed III, vennero impiegati architetti europei influenzati dalla tecnica militare di Vauban. Le imponenti mura fortificate, il fossato e i bastioni in pietra, circondano tutto il suo perimetro, con torri, feritoie e una teoria di cannoni ancora conservati, mentre la città con le sue strette vie e le sue abitazioni imbiancate a calce, si sviluppa tortuosa al loro interno. Una perfetta sintesi di architettura militare europea e abitato civile magrebino.
Medina di Fes (1981)
Venne fondata nell’VIII secolo sotto la dinastia Idriside, ma sviluppata successivamente dagli Almoravidi e dagli Almohadi, fino a diventare in epoca merinide l’attuale capitale spirituale e culturale del paese. Il suo piano urbanistico e le sue architetture sono una testimonianza eccezionale e molto ben conservata, della stratificazione e sintesi di epoche diverse, in una varietà e mescolanza stilistica che riporta a influenze arabe, ispano-moresche e berbere. La sua scuola coranica (madrasa) Quarouiyine, risale in realtà al IX secolo sotto l’influsso degli esuli kairouanesi scappati dalla Tunisia, ed è ancora oggi una delle più importanti e antiche del paese, tanto da farle meritare l’appellativo di capitale spirituale e culturale, mentre le sue numerose fontane e maioliche zellij ispano-moresche, ne impreziosiscono l’estetica architettonica. E’ a partire dal XIII secolo che Fes conosce la sua massima espansione e opulenza, con il “mecenatismo” merinide che la arricchisce di sontuosi palazzi, giardini e mura fortificate nel suo nuovo quartiere Fes El-Jedid. E’ a Fes che nasce la prima conceria e fabbrica artigianale di tintura delle pelli. I grandi vasconi di argilla sono ancora oggi in funzione, perpetuando la tradizione di Fes quale centro dell’arte e dell’artigianato marocchino.
Medina di Marrakesh (1985)
Quarta città imperiale (assieme a Fes, Meknes e Rabat), venne fondata nell’XI secolo dalla dinastia Almoravide, e divenne in breve tempo un’importante capitale economica, culturale e politica del mondo musulmano. A questa prima epoca berbera risalgono gli sfarzosi giardini, la Casbah, la moschea di Koutoubiya, con il suo imponente minareto, i muri di cinta con le porte monumentali. Tuttavia la città non smise di crescere, impreziosirsi ed espandersi in epoche successive, sotto l’influsso arabo-ispanico, con l’aggiunta di ulteriori capolavori architettonici: il Palazzo El-Badi, la Madrasa di Ben Youssef e le tombe sadiane. La Piazza Jamaâ El Fna, vero e proprio teatro a cielo aperto, i vasti palmeti e giardini che circondano la città, fanno di Marrakech un patrimonio universale di inestimabile interesse non solo architettonico e culturale tangibile, ma anche intangibile e paesaggistico. Oggi è la città turistica più visitata di tutto il Marocco.
Medina di Tétouan (Titawin) (1997)
Principale ponte culturale tra l’Andalusia e il Marocco, Tetouan divenne a partire dal VIII secolo la capitale dei rifugiati musulmani di Spagna, in fuga dalla Reconquista. La medina è una delle più piccole del Marocco, ma quella forse meglio conservata nella sua integrità originaria. Circondata da mura fortificate con 7 porte di entrata, si snoda tramite le vie di accesso principali, che si allargano e incrociano in piazze pubbliche, mercati, aree commerciali e palazzi, da cui una teoria di dedali si districa tra l’abitato. Importante centro artigianale, è la più antica testimonianza di epoca medievale, dell’influenza andalusa sulla cultura berbera mediterranea, di cui è esempio pittoresco ma più tardivo anche Chefchaouen, la “perla blu” del Rif.
Città portoghese di Mazagan (El Jadida) (2004)
All’inizio del XVI secolo i Portoghesi crearono degli avamposti militari e commerciali sulla Costa Atlantica. Le fortificazioni di Mazagan, oggi incluse nella città di El Jadida, con le loro mura e bastioni, sono uno degli esempi più antichi in Africa, di architettura militare europea, sviluppatasi tra la fine del Rinascimento e il primo Manierismo. La cisterna in stile neo-gotico e la Chiesa dell’Assunzione, sono ancora oggi conservati nella loro integrità originaria. Il primo nucleo della cittadella risale al 1514, ampliata e fortificata nel 1541, secondo il progetto dell’italiano Benedetto da Ravenna, infine abbandonata dai Portoghesi nel XVIII secolo. E’ un’importante testimonianza delle influenze europee in Marocco a cavallo di due secoli.
Rabat, capitale moderna e città storica: patrimonio condiviso (2012)
Rabat deve la sua importanza culturale all’innesto della cultura moderna coloniale sull’antica cultura arabo-musulmana. Nel XX secolo fu il più imponente piano urbanistico in terra africana della modernizzazione coloniale. La nuova capitale francese si sviluppò in breve tempo al fianco di preesistenti architetture, le più antiche delle quali risalenti all’XII secolo. Il Jardin d’Essais, i boulevard, gli edifici amministrativi coloniali, ma anche il Palazzo Reale alawita, trovarono posto in un piano regolatore, che risparmiava gli antichi quartieri con le vestigia della moschea Hassan, le mura di epoca almohade, o testimonianze successive dell’influenza andalusa del XVII secolo.
Architettura
L’architettura del Marocco è varia quanto le tradizioni locali, le differenti geografie che abbracciano il suo territorio, e i secolari influssi e dominazioni che si susseguirono fin dall’antichità in terra marocchina. Un argomento vastissimo, difficile da catalogare, ma che tuttavia si può individuare a grandi linee in 4 tipologie principali: le vestigia antico-romane; i villaggi tradizionali berberi fortificati; le città imperiali arabo-moresche; i bastioni e le mura di ingegneria militare europea.
Queste quattro tipologie abbracciano ognuna di esse una propria storia secolare, innumerevoli influssi culturali, stratificazioni, contaminazioni, sovrapposizioni e convivenze stilistico-architettoniche.
Se la cultura nomade o semi-nomade è ancora presente in alcune popolazioni berbere del meridione, che abitano le tradizionali tende khaima di forma rettangolare, in tessuto di cotone, lana o pelo, già durante la dominazione romana molte di esse erano divenute stanziali o semi-nomadi nelle regioni mediterranee e atlantico-settentrionali, sotto l’influsso delle grandi civiltà fenice e puniche. E’ su insediamenti preesistenti berberi e cartaginesi che i romani edificarono le città, di quella che divenne la Mauretania Tingitana.
Volubilis, non a caso patrimonio UNESCO, è l’esempio più grandioso e meglio conservato dell’urbanizzazione marocchina in epoca romana. Sviluppatasi nell’arco di circa 6 secoli, tra il IV secolo a.C. e il III secolo d.C., vede la sua massima espansione e caratterizzazione, visibile ancora oggi nella maggior parte delle sue rovine archeologiche, nei 3 secoli di dominazione romana. Non solo architetture e monumenti, ma un vero e proprio piano di urbanizzazione, che la trasformò in una capitale imperiale, collegata alle principali vie romane da strade e ponti, con acquedotti, cinta murarie, fortificazioni belliche e riforme agricole che ne fecero un centro di grande rilevanza economica. Terme, colonnati, magazzini, templi, porte trionfali, frantoi per la macina delle olive, sontuosi palazzi mosaicati, sono ancora conservati in uno dei siti romani più importanti del Marocco.
Nell’XI/XII secolo molte tribù nomadi o semi-nomadi berbere del meridione, a seguito di una sempre più pressante incursione degli arabi e dell’islamizzazione verso sud, per difendere il territorio, le oasi e proteggere i commerci transahariani, cominciarono a costruire piccoli villaggi arroccati e fortificati nei punti strategici delle rotte carovaniere, dove era possibile l’approvvigionamento idrico e la difesa del territorio da incursioni nemiche. Nascono gli ksour (ksar al singolare), agglomerati di case in argilla mischiata a paglia e pietra, o i castelli/foretzze (casbah) abitati dai potenti capo-clan locali, circondati da mura fortificate e torrette angolari. Al loro interno gli edifici svettano alti, con le loro facciate color ocra decorate da simboli geometrici amazigh, degradando sul pendio scosceso della collina, fino alla porta di accesso delle mura. Concepiti per essere autosufficienti, al loro interno erano predisposte apposite cisterne o pozzi, ripari per le mandrie e magazzini per le merci e i cereali(agadir), a loro volta fortificati e posti generalmente sulla sommità della collina, caravanserragli (fondouk) per l’alloggio dei mercanti di passaggio. Gli esempi più rappresentativi si trovano sull’Alto Atlante, nelle Valli del Draa, del Todra, di Dadés o di Tafilalet. Particolarmente interessanti sono lo ksar di Ait Benhaddou, Patrimonio UNESCO, risalente al XVII secolo, e la casbah di Taourirt a Ouarzazate.
Con l’avvento delle grandi dinastie arabo-berbere, l’abitato a ovest della catena dell’Atlante e in prossimità della costa, si sviluppa in un sistema di centri urbani/capitali, che rispecchiano il potere e lo sfarzo delle corti imperiali, succedutesi nei secoli sul trono del Marocco, ma anche della loro tolleranza, accogliendo una popolazione eterogenea, inclusiva delle comunità ebraiche nei quartieri mellah. Vengono edificate quelle che saranno le più ricche capitali cosmopolite del Maghreb islamico occidentale: Fez, Meknes, Marrakech, Rabat.
Mosaico di quartieri, edifici, casbah e palazzi, stretti vicoli impreziositi di piazze e fontane, intarsi e decorazioni di maiolica (zellij), mura fortificate con porte monumentali, sfarzose e imponenti moschee e madrase (scuole coraniche), mercati variopinti (souk), le loro medine (centri storici), risalgono nei loro nuclei più antichi all’epoca arabo-Idriside e berbero-Almoravide, ampliate e impreziosite successivamente dagli Almohadi, dai Merinidi e infine dagli Alawiti.
E’ con le grandi dinastie degli Almoravidi e Almohadi che fa il suo ingresso in Marocco lo stile ispano-moresco, dalle popolazioni musulmane dei Mori alle Corti Spagnole. Nascono gli elementi decorativi tipici del Marocco, l’arco moresco e la maiolica mosaicata zellij, ancora oggi distintivi dell’arte marocchina. Vengono edificati capolavori architettonici quali l’università coranica di Quarouiyine a Fez del IX secolo, o i successivi scorci di fontane e androni maiolicati e intarsiati, di epoca merinide. Le mura monumentali di Meknes con la sua spettacolare Porta di Bab Mansour, quanto di più grandioso sia stato prodotto sotto il sultano alawita Moulay Ismail, tanto che si parla di “capitale ismaelita”. Gli spettacolari giardini di Marrakech, la Casbah e la moschea di Koutoubiya, con il suo imponente minareto, di epoca almoravide, o i successivi Palazzo di Bandia, la Piazza Jamaa El-Fna, la Madrasa di Ben Youssef e le tombe sadiane. E’ proprio a Marrakech che l’arte ispano-moresca si evolve nella sua più alta espressione, in uno stile tipicamente marocchino, che affonda le sue radici nelle origini berbere autoctone.
Quando si parla di abitazioni civili urbane in Marocco, la tipologia tipica è il riad, che a differenza dei monumenti, degli edifici religiosi e dei palazzi imperiali, sono esternamente tutti uguali. Muri anonimi e chiuse sui vicoli, sviluppati internamente attorno a una corte. E’ nei volumi interni dell’abitato che si diversifica lo sfarzo a seconda del ceto dei proprietari. E’ tra i porticati, le arcate, gli androni, i cortili, le fontane e i portali che un tripudio di maioliche zellij, azulejos, intarsi lignei, vetrate colorate, stucchi, lanterne e stoffe preziose, trovano la loro massima espressione estetica.
Da sempre ponte commerciale e strategico tra l’Africa subsahariana e l’Europa, anche i primi esploratori europei lasciarono le loro tracce negli avamposti costieri. Tra i primi insediamenti portoghesi in terra africana è la città fortificata di Mazagan, oggi El Jadida, risalente al 1514/1541. Le mura e bastioni fortificati, la cisterna in stile neo-gotico e la Chiesa dell’Assunzione, sono uno degli esempi più antichi in Africa, di architettura europea, sviluppatasi tra la fine del Rinascimento e il primo Manierismo.
E’ sull’ingegneria militare europea che viene anche commissionata la costruzione del porto commerciale di Essaouira nel XVIII secolo, dal sultano alawita Mohammed III, e per la cui realizzazione furono impiegati 30.000 schiavi, secondo i progetti ingegneristici militari del francese Vauban. Tra i bastioni delle imponenti mura perimetrali e l’intricato dedalo della medina, Essaouira, l’antica Mogador, è una perfetta sintesi di architettura militare europea e abitato civile magrebino.
Un edificio tipico della tradizione architettonica marocchina è il marabutto (zawiya), che nacque in epoca almoravide, quando i capi-clan divennero anche capi-spirituali, condottieri della jihad e dell’islamizzazione dei popoli del sud. Venerati come santi-guerrieri, le loro tombe divennero veri e propri mausolei, luoghi spirituali di pellegrinaggio, dove ricercare la baraka (stato di grazia). La loro caratteristica di edifici semplici in argilla, è la cupola (koubba) imbiancata a calce di cui sono sormontati, impreziosita di maioliche colorate nelle grandi città.
Arte tradizionale
Quando si parla di arte e artigianato magrebino, immediatamente il pensiero corre ai variopinti e caotici souk delle città marocchine. I mercati stessi sono arte. Non è forse arte, saper disporre in ordine cromatico la mercanzia? Non è forse arte riuscire ad accostare manufatti di tutti i tipi, secondo un’armonia cromatica, quasi matematica?
I souk marocchini sono proprio questo, un tripudio di manufatti e spezie (utilizzate anche esse in campo artistico, quali pigmenti naturali) di tutti i colori, souvenir di ogni genere e valore, ma anche arte, un’arte che nel suo savoir-faire riporta ad epoche lontane, rendendo il mercato un luogo senza tempo.
Basti pensare che la porpora, veniva venduta più cara dell’oro già ai tempi di Giuba II, impiegata quale pigmento principale per le stoffe dell’Impero Romano. Una delle prime fabbriche di estrazione di porpora dai molluschi (murici), fu a Mogador (Essaouira) che ne era ricchissima.
Una delle più antiche concerie per la tintura del pellame, si trovava a Fes, tutt’oggi attiva con i suoi enormi, e ovviamente coloratissimi, vasconi di argilla circolari, la più fotografata al mondo.
Inutile dire che tra le arti principali del Marocco sono ancora oggi la tessitura, la lavorazione del cuoio e la loro tintura.
Difficile tornare dal Marocco senza aver comprato un tappeto berbero. Quest’arte antichissima si tramanda di generazione in generazione, e se la gamma dei colori e motivi geometrico-decorativi risale alla notte dei tempi, a una simbologia identitaria, il loro accostamento è strettamente legato al processo creativo e all’ispirazione di ciascun maalem (artigiano). Ne vengono prodotti artigianalmente di tutti i tipi e non essendo un processo meccanico, ogni tappeto è un pezzo unico. Di lana spessa, o kilim rasi, senza vello, con motivi geometrici o simboli berberi di buon auspicio, floreali o arabeschi, coloratissimi o monocromatici, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
I mercati non sono solo il luogo dove si espone la mercanzia, ma anche dei veri e propri laboratori d’arte, dove i maalem lavorano instancabilmente nelle loro botteghe, creando con mani sapienti e ferme, i manufatti di una tradizione millenaria. Dai tessuti alle stoffe ricamate, dalle passamanerie agli indumenti in feltro, dalla ceramica alle lanterne in rame e vetro colorato, dagli accessori in cuoio ai gioielli in argento, tanto cari alla tradizione berbera.
Al pari della ricchezza cromatica dei tessuti, è quella impiegata nella produzione ceramica. Dalle tajine (recipienti in terracotta smaltata per la cucina) ai piatti, ciotole e tazze, ogni regione ha la propria tradizione cromatica e i propri elementi decorativi. Le ceramiche di Meknes sono generalmente nere e verdi, quelle di Safi seguono la tradizione monocromatica berbera dell’avorio e nero, a Tamegroute si usa il rame ossidato per ottenere una particolare gradazione di verde brillante, a Salé i motivi geometrici sono soprattutto gialli e turchesi, mentre rossi e arancioni quelli di Marrakech.
La particolare tecnica del zellij risale al X secolo e affonda le sue radici nel mosaico di epoca romana e nei colorati azulejos ispano-moreschi e portoghesi. Si voleva rendere la ricchezza decorativa e cromatica degli azulejos europei, con la complessità e raffinatezza del mosaico romano. Nascono delle meravigliose composizioni di frammenti ceramici invetriati, tagliati in forme geometriche, arabesche e floreali stilizzate, e accostate tra loro nelle decorazioni che hanno reso i monumenti e le fontane delle medine imperiali marocchine, dei veri e propri gioielli smaltati. I motivi sono gli stessi che vengono dipinti con l’henné sulle mani e i piedi delle donne, in occasione di feste e cerimonie tradizionali, un’arte dell’estetica antichissima.
Quando si parla di gioiello e arte orafa nella cultura marocchina, si pensa immediatamente all’antico savoir-faire berbero della lavorazione dell’argento (secondo un’antica leggenda, i berberi individuavano nell’oro l’origine di tutti i mali).
Il gioiello non è solo un elemento decorativo, bensì un vero e proprio simbolo identitario, religioso e un portafortuna protettivo, che riporta a tradizioni ancestrali di epoca pre-islamica, all’universo degli spiriti cattivi Djin.
Tiznit è una piccola cittadina berbera della regione meridionale di Sous Massa Draa, dove si perpetua da secoli l’arte del gioiello in argento. Dai suoi laboratori artigianali escono raffinatissimi e famosissimi monili, tanto belli quanto misteriosi. Collane, orecchini, spille, cavigliere, diademi, ciondoli, anelli, fibbie e bracciali, lavorati in argento, ambra, corallo e ebano, sono soprattutto dei talismani protettori, curativi e propiziatori, oltre che simboli tribali di appartenenza a un clan e status sociale. Un vero e proprio potere magico soprannaturale e religioso investe chi li porta, conferendogli benessere e fertilità, protezione contro la stregoneria (s’hour) e il malocchio, contro gli spiriti cattivi, contro le malattie e gli incidenti. Questi amuleti concentrano la propria efficacia sia nelle proprietà dei materiali utilizzati, sia nell’intricata e antichissima simbologia delle forme e dei motivi decorativi, tra cui il più famoso è sicuramente la mano protettrice di Fatima (khamsa).
Tuttavia in Marocco non è necessario utilizzare metalli pregiati per creare veri e propri gioielli anche nei laboratori dei fabbri. Lanterne con intarsi di vetro colorato, piatti in rame, vassoi sbalzati di ottone, fibbie in ferro e perfino posate e tanti altri utensili di uso comune, vengono forgiati come veri e propri monili d’arte orafa.
Ai processi dell’arte tradizionale marocchina, meriterebbe di essere elevata anche la produzione dell’olio di argan, per il suo antichissimo ed elaboratissimo procedimento di estrazione.
Chiamato dai berberi l’albero della vita, l’argania spinosa produce un frutto simile ad una grande oliva, il cui seme viene lavorato tradizionalmente dalle donne berbere da centinaia e centinaia di anni. Dapprima viene separato dalla polpa (che sfama gli animali), poi dalla dura scorsa che lo protegge e infine tostato, macinato e pressato, per estrarne il prezioso olio, con l’aiuto di macine e mole di pietra. Il laborioso processo di estrazione, la sua rarità, dal momento che la pianta cresce solo in una valle dell’Anti-Atlante marocchino, ma soprattutto le ricchissime proprietà nutritive, salutari e cosmetiche, rendono l’olio di argan un vero e proprio elisir di lungavita, molto costoso e ricercato.
Cinema
Se il cinema in Marocco stenta a decollare, vanta al contrario una lunga tradizione come location prediletta di set cinematografici internazionali, tanto da portare alla creazione a Ouarzazate nel 1983 degli Atlas Film Studios e dei Cla Studios nel 2004.
La sua luce, i suoi paesaggi versatili e il basso costo dei tecnici qualificati, hanno permesso a molti registi hollywoodiani di successo, di ambientare al meglio le proprie pellicole storiche o di fantascienza.
I primi a capirne il potenziale furono proprio i padri del cinema, i Fratelli Lumière, alla fine del XIX secolo. Successivamente molti film pluripremiati vennero girati nelle regioni berbere, e ironia della sorte, l’unico ambientato in Marocco fu, al contrario, girato ad Hollywood: Casablanca.
Lawrence d’Arabia di David Lean del 1962, il Gladiatore di Ridley Scott del 2000, L’ultima tentazione di Cristo del 1988 di Martin Scorzese, Babele di Inarritu del 2006, la sagra Games of Trones del 2011, il Tè nel Deserto di Bernardo Bertolucci del 1990, sono solo alcune delle pellicole più famose realizzate in Marocco.
Una vera e propria scuola di registi marocchini deve invece scontrarsi con l’assenza di finanziamenti da parte del governo e una censura spesso penalizzante. Questo non ha comunque impedito ad alcuni bravi registi di formarsi e di produrre qualcosa di interessante e al Re Mohammed VI di promuovere il Festival Internazionale del Cinema di Marrakech con anche una sezione interamente dedicata ai cortometraggi di giovani studenti emergenti.
Tra i più noti registi sono, Mohammed Ousfour che inaugura il cinema marocchino nel 1958 con Le fils maudit,il franco-marocchino Nabil Ayouch, padre di Whatever Lola Wants(2007), l’autore sperimentale Hicham Lasri con il suo The End del 2011 e C’est eux les chiens del 2012, Izza Genini, leggendaria regista e produttrice marocchina che ha girato negli anni ’80 e ’90 una serie di undici documentari sulla musica popolare marocchina, Maroc corps et ame. O ancora Hamid Bennani e Ahmed Bouanani, scrittori oltre che registi e considerati tra i principali esponenti del cinema post-indipendenza.
Letteratura
In Marocco la scrittura compare con l’arrivo dei Fenici, dei Cartaginesi, o nel codice scritto tifinagh delle popolazioni Amazigh. Tuttavia non si può parlare di una vera e propria letteratura, fino all’avvento dei Romani nel III secolo a.C. Durante la dominazione romana, molti re della Mauretania e della Numidia, quali Giuba II, si formarono a Roma e divennero letterati, autori di scritti in latino e in greco.
All’epoca dei grandi Regni arabo-berbero-moreschi, la letteratura marocchina subisce l’influenza della lingua e scrittura arabe, dell’islamizzazione e dei grandi eruditi mediorientali o ispano-moreschi. Anche in questo caso erano letterati che sostanzialmente si erano formati altrove.
Un impulso all’erudizione e alle lettere arrivò in Marocco sotto la dinastia Idriside, con la fondazione nell’859 dell’Università coranica Quarouiyine a Fes, ad opera di Fatima al-Fihri, esule tunisina di Kairouan.
Sotto le dinastie Almoravide e Almohade, non si può distinguere tra una letteratura propriamente marocchina e una Al-Andalus di Spagna, dal momento che i territori erano riuniti sotto un unico Regno e gli eruditi si spostavano tra un’università e l’altra della Spagna e del Marocco, insegnando e scrivendo soprattutto di teologia, scienze e diritto coranico.
E’ in particolare con il mecenatismo almohade che le lettere e l’arte presero a fiorire in Marocco e vennero fondate numerose scuole e università coraniche, centri spirituali e biblioteche, quali la moschea Koutoubiya di Marrakech. I testi manoscritti e miniati erano di poesia, filosofia, teologia, scienza, matematica, diritto coranico, fisica e astronomia, e fruibili da un sempre maggior numero di eruditi provenienti da tutte le parti del Magreb e dell’Andalusia, quali Ibn Rushd, meglio noto con il nome latino di Averroé, che fu anche medico e giudice di corte del califfato.
Per vedere la prima opera interamente scritta in darija (dialetto arabo marocchino) bisognerà aspettare il XIII secolo, sotto la dinastia Merinide, con il poema epico del poeta zajal (poesia strofica orale) Abdullah al-Kafif az-Zarhuni.
E’ all’Università di Fez che si formò lo storiografo, geografo e diplomatico moro Leone L’Africano. Nato a Granada intorno al 1490, si trasferì appena nato con la famiglia a Fez. A lui si deve la prima dettagliata descrizione del Maghreb e della Valle del Nilo, rimasta la più esaustiva fino alle prime esplorazioni europee, anche se in realtà è un’opera dettata da Leone al geografo italiano Giovanni Battista Ramusio.
Nei secoli successivi era ormai prerogativa di ogni sultano, collezionare preziosi manoscrittie testi di tutte le discipline, circondarsi di eruditi e incentivare le lettere. Spesso erano gli stessi sovrani ad essere dei poeti, come Ahmed al-Mansour, sultano della dinastia sadiana.
Una delle biblioteche più ricche fu quella del sultano sadiano Zaydan, del XVII secolo, per le cui vicissitudini storiche legate a una guerra civile, ci è giunta integra e conservata all’Escorial, dopo essere stata messa al sicuro su una nave dallo stesso proprietario.
Tra i padri della letteratura in berbero tachlakhit, fu Mohammed Awzal (1680–1749), originario della regione di Sous. Predicatore ed erudita coranico, scrisse in berbero per l’esigenza di aver un maggior seguito tra le popolazioni rurali. L’opera Baḥr al-Dumū (Oceano di Lacrime), trattato in versi escatologico, è probabilmente il suo testo più noto e un capolavoro della letteratura berbera.
Tre generazioni di scrittori hanno scandito quella che si può definire la letteratura marocchina moderna del XX secolo e aperto le porte al perenne dibattito sulla produzione letteraria marocchina in lingua francese.
La prima fu la generazione di scrittori durante il Protettorato, il cui rappresentante più importante fu il poeta Mohammed Ben Brahim. Tale generazione componeva sostanzialmente versi e poesie per la corte marocchina, relegando in secondo piano la francofonia e la tradizione berbera. Tuttavia Ben Brahim, chiamato anche il Poeta di Marrakech, dedicava i suoi versi popolari sia al sultano Mohammed V che al suo oppositore berbero El Glaouli, e venne considerato come un nazionalista dal governo francese.
La seconda generazione fu quella che si formò nel periodo di transizione verso l’indipendenza, con scrittori come Abdelkrim Ghallab, Allal al-Fassi e Mohammed al-Mokhtar Soussi. Questa seconda fase della letteratura marocchina si spinge sempre più verso i movimenti politici indipendentisti, aderendo spesso alla lotta armata. I loro testi erano in prevalenza religiosi, propagandisti o comunque identitari, legati all’universo culturale arabo-musulmano e raramente davano voce all’universo berbero.
Infine la terza generazione è quella degli scrittori degli anni sessanta, con Mohamed Choukri, Driss Chraïbi, Mohamed Zafzaf e Driss El Khouri, e il più famoso Tahar Ben Jelloun, conosciuto in tutto il mondo e tradotto in moltissime lingue.
E’ a partire dall’influsso della Beat Generation europea degli anni ’60, che la francofonia comincia a destare interesse tra gli intellettuali marocchini, quale mezzo espressivo linguistico di una pluralità culturale originaria marocchina. La tradizione araba, l’identità berbera e la colonizzazione, trovarono un denominatore comune e nuovi strumenti espressivi che permettessero di andare oltre il canto popolare o la letteratura accademica araba.
Nascono i primi romanzi contemporanei e i primi dibattiti, non sempre pacifici, tra sostenitori della cultura arabo-musulmana e sostenitori del mezzo espressivo francofono, quale il più adatto ad esprimere il multiculturalismo marocchino, ma anche le nuove realtà sociali contemporanee del post-indipendenza.
L’input in questa direzione venne dai due scrittori internazionali, Paul e Jane Bowles che trasferendosi a Tangeri negli anni ‘50, crearono un movimento letterario marocchino sotto il loro influsso. A questo periodo appartengono numerosi romanzi, tradotti in inglese da Bowles, di autori marocchini nascosti sotto pseudonimo, che raccontavano di realtà mai affrontate in seno alla letteratura accademica della tradizione arabo-musulmana. Quotidianità e spaccati di vita urbana, fatti spesso di droga, sesso e degrado, storie di strada, temi affrontati anche con cruda ironia. La lingua araba non avrebbe mai potuto rendere questa nuova corrente realistica. In seno a questa ventata di novità, nasce ad opera del poeta marocchino Abdellatif Laâbi, nel 1966, la rivista letteraria in francese Anfas/Souffles, ispirata alla libertà di espressione, forma e pensiero e alla lotta contro la censura. Il cofondatore della rivista, Mohammed Khaïr-Eddine, si dichiarò apertamente “guerrigliero della lingua” e paladino allo stesso tempo della cultura berbera, e pubblicò il provocatorio Ce Maroc!, un’antologia di scritti rivoluzionari.
L’eredità di questa corrente intellettuale, viene raccolta negli ultimi vent’anni da numerosi autori contemporanei di talento, quali Tahar Ben Jelloun, in assoluto lo scrittore marocchino più conosciuto e tradotto al mondo (Creatura di sabbia del 2005; Il razzismo spiegato a mia figlia del 2010; La rivoluzione dei gelsomini del 2011), o da esponenti sempre più attenti a delicate problematiche contemporanee sul femminismo e i rapporti uomo-donna. Tra questi Rita El Khayat (prima donna psichiatra del Maghreb) è unanimemente considerata la più autorevole, con opere sulla condizione esistenziale delle donne nel mondo arabo, come il best-seller Il legame del 2007.
Musica
Come in tutte le espressioni artistiche, anche la musica in Marocco è variegata ed eterogenea quanto le realtà culturali del popolo marocchino.
Gli stili musicali e gli strumenti artigianali, i testi in lingua araba o berbera, attingono da molteplici tradizioni e fonti di ispirazione, che risalgono alle vicissitudini storiche e culturali di ciascuna regione.
Pur nella sua grande varietà si possono distinguere cinque generi principali.
La musica classica arabo-andalusa, deve la sua origine agli esuli di Granada che si rifugiarono in Marocco a partire dal X/XII secolo, portando con sé gli influssi della musica medievale cristiana dei canti gregoriani. E’ Tetouan a divenire la culla del genere cosiddetto andaluso, in terra marocchina. L’orchestra si compone di canti in arabo che reinterpretano antichi poemi classici, accompagnati da una strumentazione di rebab (violino a una corda), tar (tamburo di origine basca), derkouba (un tamburo da gamba), laud (un mandolino a 4 corde). Ancora oggi la musica classica andalusa è molto ascoltata tra le classi intellettuali dei centri urbani.
La musica tradizionale berbera risale all’epoca pre-islamica e si basa sulla tradizione orale dei djalis, i cantastorie addetti a tramandare le gesta dei signori o divertire le corti, come una sorta di giullari. La caratteristica principale è quindi quella dell’improvvisazione, sia nella composizione strumentale che nei testi, adattati di volta in volta al tipo di evento o festa per cui viene suonata, o a seconda delle tradizioni e della storia del clan berbero o della famiglia per cui ci si esibisce. Ancora oggi sono spettacoli che accompagnano le feste comunitarie, quali i moussem (feste dei santi locali), le nascite e i battesimi, o i matrimoni.
La musica popolare è un genere di improvvisazione che a differenza della tradizione prettamente berbera, si basa su antiche leggende in arabo. Suonato durante gli eventi festosi collettivi, richiede un’ampia partecipazione del pubblico che deve arricchire e accompagnare il tempo strumentale, con il battito ritmico delle mani e con grida amplificate, quali il famoso grido di gioia delle donne durante i matrimoni, che accompagna la nuova coppia verso la vita coniugale. I testi sono estremamente lunghi e ogni canzone può durare per decine e decine di minuti.
Il Rai (o Chaebi) è l’ultimo arrivato in Marocco e vide l’esordio a Orano in Algeria all’inizio del XX secolo, diffondendosi presto a anche tra gli artisti marocchini. E’ un canto parlato melodico, una sorta di nenia in cui lo shaykh compone poemi sia in berbero che in arabo, a seconda della regione, sulle proprie vicissitudini sentimentali. A partire dagli anni ’60 si è sempre più arricchito di strumentazioni rock, con l’aggiunta di chitarre elettriche e batterie, fino a farlo diventare il principale genere nel panorama pop contemporaneo del Maghreb, internazionalizzatosi anche per l’uso sovente della lingua francese. Tra i suoi esponenti sono Abdellah Daoudi, Aymane Serhani, Cheikh Mokhtar El Berkani.
La musica gnawa (o gnaoua), diffusa anche in Algeria e in Tunisia, conserva ancora oggi la sua tradizione millenaria e viene celebrata in un Festival Internazionale a Essaouira. La sua origine è antichissima e individuabile tra le popolazioni subsahariane che vennero deportate nei secoli durante la schiavitù, prima araba, poi europea. Si tratta di canti e ritmi strumentali (djimbri, un flauto, il tamburello e il tamburo a spalla) fortemente ipnotici, che venivano utilizzati in passato, ma ancora oggi, a scopi terapeutici, da guaritori e veggenti tradizionali, durante i loro riti che richiamavano le pratiche della trance sciamanica e dell’animismo ancestrale, e che rappresentano oggi in sincretismo, l’aspetto più mistico e spirituale della religione musulmana sufi.
Inutile dire che tutti questi generi musicali tradizionali, esattamente come avvenuto nel Rai, sono andati sempre più contaminandosi, arricchendosi, evolvendosi con i nuovi generi musicali internazionali, quali il rock, il blues, il jazz, il pop, il rap e il reggae. Oggi molti artisti contemporanei di ultima generazione, propongono una musica apparentemente lontana dalla tradizione, ma fortemente influenzata da essa e con richiami costanti ai ritmi degli strumenti a percussione, a corda e a fiato della storia marocchina. I rapper Aymane Serhani, Karim Kharbouch e Zouhair Bahaoui, usano costantemente le sonorità dei tamburi tradizionali e dei flauti, con cui inframmezzano la strumentazione elettronica predominante.